Prima parte di un viaggio lungo un secolo (e oltre) nella storia della fashion photography: dalle prime riviste di moda d’inizio XX secolo alla rivoluzione digitale dei giorni nostri, per capire come si è formato un genere che, più di ogni altro, è il metronomo di un’epoca.
Nuovo anno e nuovo genere fotografico che – anche per dare seguito ad alcuni miei lavori realizzati di recente con alcune modelle (presenti in una nuova sezione dedicata) – andrà questa volta a riguardare la fotografia fashion o fashion photography, termine anglofono ormai entrato nell’uso comune per indicare un genere da noi più semplicemente conosciuto come fotografia di moda.
Ma cos’è fashion? Cos’è moda? E di cosa si occupa la fotografia di moda? In cosa è diversa, per esempio, dalla fotografia di ritratto o da altri generi abbastanza simili, ma come vedremo (nella seconda parte di questo racconto) anche profondamente diversi, con cui viene spesso (erroneamente) identificata? Per capirlo, bisogna partire dalle definizioni.
Che cos’è la fashion photography?
La definizione semplice:
La fotografia fashion è il ritratto di qualcuno che indossa un vestito.
Provando invece ad ampliare la spiegazione un po’ tranchant, fornita in questo caso da David Bailey – il fotografo inglese dell’ondeggiante Londra anni ’60 a cui si ispirò Michelangelo Antonioni per il suo Blow Up (lo ritroveremo più avanti) – possiamo aggiungerne un’altra, un filino più tecnica o forse solo più moderna, che ci consente di riassumere meglio la complessità (e varietà) di un genere fotografico abbastanza ibrido, sempre a metà strada fra creatività e stereotipo, tra arte e merce, poiché in grado non solo di abbracciare più categorie, ma anche di continuare ad evolversi nel tempo.
La definizione “evoluta”:
La fashion photography è l’incontro tra arte e commercio dove l’artista deve saper unire la fotografia di prodotto (si parla in questo caso di fashion still life), la ritrattistica e soprattutto la fotografia d’arte (fine art, cioè l’approccio adottato dall’artista e la sua intenzione di fare foto particolari), per valorizzare abbigliamento e accessori di moda.
Storia della fashion photography
Dalle sue umili origini all’inizio del 20° secolo fino ad arrivare ai giorni nostri, quanto segue sarà un viaggio attraverso il glamour, la ribellione, l’arte e il consumismo del secolo scorso per scoprire come è stata definita l’arte di un intero settore.
Non credo infatti si possa comprendere a pieno quella che è diventata oggi la fotografia di moda, se non passando prima attraverso le varie epoche che l’hanno influenzata. E per far questo, bisogna, come sempre, partire dalle origini…
Gli inizi della fashion photography
Abbiamo già visto nella prima parte dell’articolo sulla storia della fotografia di ritratto, come l’invenzione della fotografia risalga ufficialmente al 1839 e come questa si sia sviluppata solo a partire dalla seconda metà dell’800, con l’invenzione della procedura del collodio umido (1851), che permetteva di riprodurre il negativo di carta in un numero infinito di copie.
I costi dell’attrezzatura fotografica, come anche quelli di stampa, non erano però ancora alla portata di tutti, così non sorprende che, in questo periodo, insieme alla nascita dei primi album fotografici (1854), alcuni professionisti inizino ad affermarsi come primi fotografi di moda famosi grazie ai ritratti di donne aristocratiche vestite alla moda.
Metà ‘800: le prime “modelle”

Scherzo di Follia (Comtesse di Castiglione)
Nel 1856, Adolphe Braun pubblicò un book fotografico contenente 288 fotografie di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, una nobildonna toscana alla corte di Napoleone III per conto del Regno di Sardegna. Le foto ritraevano la contessa nei suoi abiti di corte ufficiali, e resero la nobildonna la prima modella di fotografie di moda.
La tendenza presto coinvolse anche celebrità del mondo del teatro e delle arti, come l’attrice Sarah Bernardt, ripresa nel 1865 dal fotografo parigino Nadar, inaugurando così il legame simbiotico tra moda e personaggi famosi che dura ancora oggi.
La nascita della modella vera e propria (intesa come professionista pagata per indossare dei vestiti che non fosse già una celebrità) può invece essere fatta risalire a qualche anno prima quando Charles Frederick Worth, uno stilista francese, assunse nel 1853 Marie Vernet per indossare esclusivamente la sua linea di abbigliamento.
Fine ‘800: le prime riviste di moda
Sul finire dell’800 la fotografia inizia a diventare più accessibile, grazie alla nuova tecnica della gelatina secca (1879-80) che, riducendo tempi di esposizione e dimensioni dell’attrezzatura, rendeva possibile la riproduzione di foto in serie a costi più contenuti. Nascevano così i primi prototipi di riviste di moda. Col suo debutto nel 1867, Harper’s Bazaar divenne la prima rivista di moda americana, a cui presto seguì Vogue nel 1892, che emerse subito come leader delle pubblicazioni di moda. La loro comparsa coincise con la nascita delle nuove tecniche di stampa che, a partire dal 1890, permisero di far apparire testo e fotografia sulla stessa pagina.

Prima copertina di Vogue, 1892
Sempre in questi anni (1890) Lady Duff Gordon reclutò un certo numero di donne alte e statuarie per presentare il suo marchio di abbigliamento Lucille per quelle che possono essere considerate le prime sfilate di moda.
E la storia della fashion photography inizia dunque da qui, con le prime grandi riviste e i primi grandi fotografi di moda (senza naturalmente dimenticare le loro modelle) che hanno segnato le varie epoche, che da qui in poi, cercherò di riassumere per decadi, assegnando anche ad ognuno di questi macro-periodi l’interprete o avvenimento più significativo.
Non me ne vogliano i maschietti se farò poco riferimento alla moda maschile, visto che questa non subirà grandi evoluzioni per tutta la prima metà del ‘900.
Gli anni di Condè Nast
Sebbene le prime riviste di moda fossero nate già da qualche decennio, bisogna capire che prima della fotografia di moda non c’era la moda: c’era la sartoria. C’erano cioè i modellini acquerellati che le signore dell’alta società ritagliavano da riviste snob e mettevano sotto il naso delle loro confezionatrici, «ecco vorrei una cosina come questa». Abiti come oggetti di arredamento, simboli di classe, al pari dei quadri e dei vasi cinesi, solo che si portavano addosso. Ma mentre l’abito si indossa, la moda si guarda. La differenza è cruciale. E i primi a capirlo furono Edward Steichen e quello che diventerà il suo editore…

Anni ’10: i primi servizi di moda

L’Art de la Robe di Paul Poiret in Art et Décoration
Anche se ci sono esempi precedenti di alta moda ritratta in fotografia (secondo alcuni il primo esempio sarebbe avvenuto ad opera di Lady Clementina Hawarden, pioniera della fotografia già intorno al 1860), il primo servizio di moda moderno (e cioè appositamente pensato per questo scopo per una pubblicazione) è attribuito a Edward J. Steichen, che fotografò abiti disegnati da Paul Poiret per il numero di aprile 1911 della rivista Art et Decoration. Anche se queste immagini si rifacevano ancora in buona parte alle illustrazioni del periodo, iniziarono a definire il genere in quanto non si limitavano a registrare l’aspetto degli abiti, ma trasmettevano anche un senso dell’abito e di chi lo indossava.
Edward Steichen: il padre della fotografia di moda

Edward Steichen
Edward Steichen (1879 – 1973), fotografo e pittore lussemburghese naturalizzato statunitense, è da molti considerato il padre fondatore della moderna fotografia di moda.
Dal 1900 circa, fu determinante nello stabilire uno status per la fotografia americana come arte attraverso un impegno per i principi del pittorialismo.
Con Alfred Stieglitz, ha contribuito a formare il gruppo Photo-Secessione, il cui intento era di promuovere la fotografia come arte, ha co-fondato l’influente trimestrale Camera Work (una della prime riviste di fotografia) e ha fondato la famosa galleria 291, e tutto entro i primi cinque anni del 1900.
Dopo aver viaggiato attraverso l’Europa e vissuto a Parigi, conobbe molti dei più grandi artisti e interpreti del 20simo secolo, contribuendo a portare il modernismo europeo alla più ampia attenzione del pubblico americano. In questo primo periodo della sua carriera, Steichen divide il suo tempo tra la pittura impressionistica e la fotografia. Ha imparato l’abilità del tonalismo e il processo di stampa a colori multistrato noto come gomma-bicromato. Con questo metodo è stato in grado di portare uno stato d’animo impressionistico alle sue immagini fotografiche (e, forse, qualcosa della sua pratica fotografica alla sua pittura).
Ciò che Steichen e Vogue hanno dato alla fotografia moderna sono stati i progetti per quasi tutte le pubblicità di moda che sarebbero arrivate negli anni successivi. Steichen che nel 1923 viene nominato fotografo di casa per Vogue e Vanity Fair, mantenendo l’incarico per i successivi quindici anni, ha formato il suo vocabolario visivo unico negli anni ’20 e ’30, distillando le classiche immagini rinascimentali con il cubismo e il futurismo per creare qualcosa di fresco ed eccitante. Il suo uso di modelli, luci e tecniche sperimentali di studio erano completamente rivoluzionari e, per molti anni, i suoi contemporanei non ebbero altra scelta che seguire la sua strada. La sua importanza non può essere esagerata; Steichen ha cambiato il volto della fotografia di moda e le sue innovazioni sono ancora utilizzate fino ad oggi.
«Dobbiamo fare di Vogue un Louvre»

Fuoco del vento – Thérèse Duncan sull’Acropoli

Gloria Swanson

Marion Morehouse e modella non idendificata in abiti Vionnet

Mary Taylor e Anne Whitehead su scala a specchi progettata da Diego Suarez
Un altro fattore cruciale per ampliare l’attrattiva della moderna fotografia di moda è l’arrivo in questo periodo della persona che ogni fashion addicted non può non conoscere: il grande imprenditore Condé Nast, il cui mito resiste ancora oggi grazie alla Condé Nast Pubblications. Nel 1909 rivelò Vogue e, dopo aver investito grosse cifre nello sviluppo di nuove tecniche di stampa, nel 1913 lanciò anche la rivista Vanity Fair.
Iniziò ad ingaggiare i fotografi di spicco dell’epoca per realizzare servizi a signore benestanti con l’obiettivo di trasmettere all’osservatore un messaggio di agio e lusso, ma soprattutto, come vedremo più avanti, di strappare ad Harper’s Bazaar il titolo di migliore rivista di moda in America (e quindi del mondo).
Anni ’20: Parigi e i primi fashion photographer
Il movimento artistico-culturale del Surrealismo (nato a Parigi negli anni ’20) ha da subito un profondo impatto sulle riviste di moda del periodo. Dipinti di Salvador Dalí e Giorgio de Chirico appaiono regolarmente su Vogue accanto a fotografie d’avanguardia dei primi fotografi di moda che adottano i loro principi rivoluzionari, tentando di dare espressione visiva alla mente inconscia. Nuove tecniche e accostamenti inaspettati vengono utilizzati per sfidare le percezioni della realtà, divertire, disturbare e soprattutto far sognare…
Sono gli anni in cui artisti come il barone Adolph de Meyer (primo fotografo ufficiale di moda assunto a contratto da Vogue), concentrano il loro lavoro cercando di ritrarre donne in atteggiamenti distaccati da diva, quasi eterei, volendo sottolineare così il loro ruolo di figura irraggiungibile.
Adolph de Meyer: il Debussy della fotografia

Adolph de Meyer, autoritratto, 1930
Le origini del barone Adolph de Meyer (1868-1949) sono nebulose almeno quanto le sue fotografie. Nato probabilmente a Parigi da padre tedesco e madre scozzese, cresciuto in parte in Germania, a 27 anni si trasferisce a Londra, dove conosce Olga Caracciolo (presunta figlia illegittima di Re Edoardo VII), che sposa nel 1899, e con la quale forma una coppia alla moda e decisamente anticonvenzionale (sono entrambi omosessuali), che rappresenta la fondazione di una piccola impresa socio-artistica.
È grazie a Olga che ottiene il titolo nobiliare di barone e con esso le prime prestigiose e altolocate amicizie con quelli che sono anche i soggetti dei suoi primi ritratti in stile pittorialista, che ne fanno in breve tempo il fotografo più famoso e strapagato al mondo. Del resto, le sue fotografie sono inimitabili. Il suo talento unico.
De Meyer è infatti famoso per il suo linguaggio fotografico espresso attraverso la tecnica del flou: usando uno speciale obiettivo Pinkerton-Smith che sfocava i bordi, rafforzando l’atmosfera eterea con una garza di seta e usando per le stampe viraggi e tonalità delicate, il barone riusciva ad ottenere una tenua sfocatura che creava una dimensione/sensazione metafisica e misteriosa. Con le sue immagini oniriche, il barone intendeva mostrare che per lui era di fondamentale importanza non tanto l’immagine quanto l’immaginario, nello stesso modo in cui alla moda non serviva mostrare semplicemente un abito, ma creare un sogno desiderabile e condivisibile.
«Non è meraviglioso che una macchina fotografica abbia il privilegio di essere il mezzo per fornire ricordi squisiti?».

Marchesa Luisa Casati

Pubblicita per Elizabeth Arden cosmetici

Dolores e la sfera di cristallo, prima foto di de Meyer per Vogue

Illustrazione per Vogue
Intanto, con la fine della prima guerra mondiale, Parigi ritorna ad essere il centro del mondo della moda in quel momento (lo stesso barone De Meyer, vi fa ritorno a partire dal 1922, diventando capo-fotografo di Bazar Francia di proprietà del famoso uomo d’affari William Randolph Hearst – la doppia A alla parola Bazaar fu aggiunta proprio in quest’anno – e anche i primi famosi fotografi interni delle riviste accorrevano lì.
Come Man Ray, Cecil Beaton o l’altro barone George Hoyningen-Huene che, prima come capo fotografo di Vogue Francia, e poi di Harper’s Bazaar (eh sì, il via vai di fotografi tra queste 2 riviste sarà continuo), ispira a sua volta una generazione. Il suo lavoro rifletteva un fascino pittorico per la luce, l’ombra e le forme classiche. Il suo protetto Horst P. Horst produsse immagini altrettanto inventive, fondendo motivi surreali e classici. Come vedremo nel prossimo capitolo di questo nostro viaggio nel tempo.
L’inizio della guerra tra le due riviste (e tra i due mondi)
Mentre il crollo di Wall Street del 1929 deflagrava nella grande depressione con una diminuzione della produzione e disoccupazione alle stelle, che inviavano onde d’urto economiche in tutto il mondo, le due riviste storiche del periodo, sceglievano comunque di continuare a enfatizzare il lusso e il glamour accessibili solo ai più ricchi. Per alcuni lettori, le loro pagine sarebbero servite come una fuga dalla dura realtà del tempo.
Anni ’30: i primi shooting ambientali e a colori
Il grande sviluppo delle immagini legate alla moda crea un vero e proprio mercato di modelle e fotografi specializzati. In questi anni essere vestiti bene è il must. Lo sviluppo della fotografia di moda (e del marketing ad esso legato) crebbe proprio grazie a questa immagine di lusso, l’idea di una vita ricca e agiata grazie a immagini patinate, perfette.
Dopo il crollo, l’industria della moda si allontanò dal look snello e fanciullesco che aveva dominato i ruggenti anni Venti, verso stili considerati più femminili. Con l’aiuto della fotografia, gli stilisti emergenti di quegli anni, come Chanel, Schiaparelli, Balenciaga e Lanvin, diventano noti per i loro stili distintivi. Le linee di prêt-à-porter e i grandi magazzini aumentano l’accessibilità della moda couture e le tendenze iniziano a diffondersi a livello internazionale.

Prima cover a colori per Vogue
Insieme alla romantica Parigi ora si guarda agli Stati Uniti con le nuove tendenze offerte dalla giovane Los Angeles. Le foto dell’epoca ritraggono sempre donne molto eleganti, impassibili.
Avviene però un piccolo cambiamento: con l’avvento di macchine fotografiche più “comode”, in questa decade la posa si sposta in ambienti esterni. La fotografia di una donna in costume da bagno, scattata da Edward Steichen, diventa anche la prima copertina a colori pubblicata da Vogue nel luglio 1932.
Gli anni Trenta segnano anche l’inasprirsi di quella che può essere definita la versione cartacea di una lunga guerra fredda tra le 2 più note riviste di moda che dura ancora oggi: da una parte l’aggressiva Vogue e dall’altra l’acerrima rivale Harper’s Bazaar, con tanto di spionaggi e incursioni devastanti nel territorio nemico e duelli titanici fra leader carismatici per strappare alla concorrenza il generale più glorioso…
La rinascita di Harper’s Bazaar
Anche se era nata un quarto di secolo prima, ormai da molti anni, Harper’s Bazaar non deteneva più il vantaggio necessario per competere con le pubblicazioni Condé Nast. Le fortune della rivista cambiarono però a partire dal 1932 quando l’allora editor di Vogue, Carmel Snow, si trasferìsce nella redazione di Harper’s Bazaar, circondandosi sin da subito di un nuovo team dinamico che in poco tempo riesce a trasformare la rivista in un influente e pionieristico riferimento per la moda degli anni ’30 e dei decenni a venire.
Per cominciare, la Snow, incaricata di ringiovanire l’immagine della rivista, fa fuori l’ormai cotto barone De Meyer e assume nel 1933 il fotoreporter ungherese Martin Munkacsi, proveniente dalle riviste di moda tedesche. È lui a realizzare quelle che sono le prime fotografie di modelle in pose sportive sulla spiaggia per il numero di costumi da bagno “Palm Beach”. Munkacsi fotografa Lucile Brokaw mentre corre lungo la spiaggia di Piping Rock a Long Island. Una delle prime immagini di modelle in movimento, che modernizzano di fatto il campo della fotografia di moda, diventando un riferimento anche per molti fotografi a venire.

Lucille Brokaw per Harper’s Bazaar, 1933
Insieme a Munkacsi arruola anche la fotografa americana (benché di origini norvegesi) Louise Dahl-Wolfe che poi, a partire dal 1936, diviene il capo del settore fotografico, realizzando per la rivista oltre 80 cover. Le sue immagini raffiguranti modelle (come una giovanissima Lauren Bacall) baciate dal sole in assolati set esterni riflettono con raffinatezza e originalità l’indipendenza della donna moderna e attiva che, con la sua vitalità, saltava fuori dalla pagina.

Twins at the Beach, Nassau, 1949.

Claire McCardell bathing suit and scarf

L’élégance en continu

Nude on the beach
Il Design Laboratory di Alexey Brodovitch
La vera rinascita della rivista avviene però soprattutto dietro le quinte, quando Snow assume anche Diana Vreeland come capo della moda e soprattutto Alexey Brodovitch come direttore artistico. Quest’ultimo, emigrato russo, aveva lavorato negli anni ’20 come grafico e scenografo teatrale per la rivista Balletti Russi di Sergei Diaghilev, e i suoi audaci disegni dinamici riflettevano un’estetica modernista, implementando sin da subito concetti di layout radicali, usando la tipografia in modi nuovi e audaci.



Tuttavia, l’influenza di Brodovitch era più risonante delle semplici pagine della rivista. Nel 1933 iniziò un corso presso la Pennsylvania Museum School of Industrial Art chiamato “Design Laboratory“, dove insegnò l’intero spettro dei moderni principi di progettazione grafica. Erano presenti giovani fotografi come Irving Penn, Eve Arnold e Richard Avedon. Sarebbero stati questi studenti a plasmare la fotografia di moda su base quasi continua per i decenni a venire, contribuendo a estendere l’eredità di Brodovitch a lungo nel futuro.

Alexey Brodovitch
Altri fotografi che iniziano ad affermarsi negli anni ’30 da ricordare: John Rawlings (americano, 1912-1970) che s’impone per il suo stile posato, minimalista e lussuoso, Erwin Blumenfeld (tedesco, 1897-1969) che amava spingere i confini della fotografia di moda sperimentale e soprattutto Horst P. Horst.
Horst P. Horst: l’architetto della moda

Horst P. Horst
Horst Paul Albert Bohrmann, che scelse come nome d’arte Horst P. Horst, nasce il 14 agosto 1906 nel cuore della Germania. Dopo aver studiato architettura ad Amburgo, si trasferì a Parigi, dove cominciò a lavorare con il grande architetto Le Courbuisier. Durante questo periodo parigino, ebbe modo di conoscere il fotografo di Vogue George Hoyningen-Huene, di cui divenne assistente ed amante. Da quel, momento abbandonò l’interesse per l’architettura e si dedicò alla fotografia di moda e di ritratto.
Nel 1937 conobbe a New York Coco Chanel, con la quale iniziò’ un sodalizio artistico durato per più di trent’anni. Allo scoppio della seconda guerra mondiale riuscì ad ottenere la cittadinanza americana e, arruolatosi nell’esercito, prestò servizio come fotografo di guerra, arrivando persino a fotografare l’allora presidente Harry Truman.
Particolarmente florido è il periodo degli anni Trenta: luce teatrale, giochi di trompe-l’oeil e trucchi di doppia esposizione. Allo stesso tempo si allontana dalle opere del suo maestro, George Hoyningen-Heune. I volti che rimandano alla pittura di De Chirico, quei volti di statue e manichini. Quel passato ripreso anche, nella fotografia di copertina, dal cavalletto in primo piano. Come a sottolineare l’accademismo, il contatto con la pittura, il ricordo dell’arte antica. Tutto questo, piano piano si allontana, e arriva il vero modernismo di Horst, che per lui significa sperimentazione. Non solo nelle tecniche, ma nel mistero e nella sensualità delle emozioni da ricreare.
Horst P. Horst rappresenta senza dubbio uno dei fotografi che, nei sui 60 anni di brillante carriera, più ha influenzato la fotografia di moda. Le sue foto non ritraggono vestiti o modelle, ma raccontano un sogno di bellezza, eleganza e glamour. L’uso sapiente della luce sembra scolpire immagini in cui si rintracciano i riflessi del classicismo greco, del Bauhaus e del surrealismo.
Nel 1990 anche la cantante Madonna rese omaggio al fotografo. Nel video “Vogue”, girato dal regista David Fincher, riproduce una delle sue immagini più iconiche indossando un corsetto sulla cui ispirazione ci sono pochi dubbi…
«Amo fotografare perché amo la vita e se amo fotografare soprattutto persone è perché, più di tutto, amo l’umanità».

Corset by Detolle for Mainbocher

Muriel Maxwell per American Vogue

Lisa as V.O.G.U.E.

Fashion in Colour – Loretta Young
Anni ’40: New York nuovo centro della moda

Fashion is indestructible
Anni ’40, gli anni della Seconda Guerra Mondiale: da questo terribile evento si inizia a capire quanto la moda sia profondamente legata alla società. Sono anni bui per il mercato del fashion; la guerra paralizza di nuovo l’industria tessile, le materie prime sono scarse e costose. Questa situazione impone una moda di circostanza dovuta alla privazione. L’occupazione di Parigi e il bombardamento di Londra da parte dei nazisti isolarono queste città e l’Europa tutta, con New York che diventava invece sempre più importante.
Per rimanere rilevanti, le riviste di moda americane incoraggiarono i loro fotografi e direttori artistici a celebrare i valori nazionalistici, per un movimento ora definito “patriotic chic”. Assecondando il momento storico, la fotografia di moda di questo periodo, viene utilizzata per fare propaganda e anche se permane l’opulenza, l’ostentazione della ricchezza, le immagini sono spesso realizzate cercando di trasmettere alle persone un messaggio di speranza, nel tentativo di dare all’osservatore qualcosa in cui credere. In questi anni si utilizzano set dove compaiono simboli del progresso e fiducia nel futuro come aerei e automobili.

La risposta europea: il “New Look” di Christian Dior
In reazione al rigore e alle privazioni della guerra, i designers di moda europei avviarono una crociata per la riconquista della femminilità e del glamour, e soprattutto del titolo di capitale della moda sempre più minacciato dall’ascesa delle nuove tendenze d’oltre oceano.
Ad assumersi il compito di riportare Parigi al centro del mondo della moda fu Christian Dior che, nel 1947 rilancia o per meglio dire rivoluziona i codici della femminilità e della moda con la nuova collezione primavera-estate Corolle: linea ampia, vita sottile e fianchi marcati con l’obiettivo di “riportare tra noi la bellezza dell’abito femminile, con forme morbide e rotonde e gonne fluenti”. Lo stile Dior, subito ribattezzato New Look da Carmel Snow, divenne così iconico che ha continuato ad influenzare generazioni di stilisti, tra i quali Miuccia Prada, Vivienne Westwood e Alexander McQueen. Fu il fotografo tedesco Willy Maywald (1907-1985) ad immortalare la donna Dior lungo le strade di Parigi.




Altri fotografi che iniziano ad affermarsi negli anni ’40 da ricordare: la fotografa Lillian Bassman (americana, 1917-2012), la cui visione elegantemente sensuale della donna completava le nuove mode, Frances McLaughlin-Gill (la prima donna fotografa ad essere assunta a contratto da Vogue nel 1943) e soprattutto Irving Penn.
Irving Penn: il Re delle copertine

Irving Penn in a cracked mirror
Irving Penn (1917-2009) nasce a Plainfield, in New Jersey, da una famiglia ebrea russa.
Fratello maggiore del famoso regista Arthur Penn (Gangster Story), dal 1934 al 1938, fu uno studente di pittura, grafica e disegno industriale presso il Philadelphia Museum School of Industrial Art, sotto il famoso designer Alexey Brodovitch diventandone in breve tempo l’assistente personale.
Si recò poi in Messico nel 1941 per dipingere, ma fu così deluso dal suo lavoro che distrusse tutte le sue opere d’arte prima di tornare a New York. Nonostante la sua mancanza di formazione formale, nel 1943 assunse un incarico fotografico per Alexander Liberman, all’epoca nuovo direttore artistico di Vogue che si accorge ben presto delle sue eccezionali (e innate) abilità fotografiche.
Il suo primo tentativo di fotografia di moda ha portato alla prima delle sue tante foto di still life sulla copertina di Vogue. Eliminando il contenuto atteso di una piattaforma di moda, Penn ha modernizzato e rivoluzionato i periodici di moda, trasformando Vogue in un potente portfolio di fotografia d’alta arte. La sua idea va in controtendenza rispetto alla fotografia di moda dell’epoca. Mentre tutti i maggiori fotografi costruiscono sfarzosi set fotografici, Irving Penn va in direzione opposta.

Si costruisce da sé un piccolo set fotografico ad angolo, trasportabile, ribattezzato “Penn’s corner”. La parete neutra diventa lo sfondo di ogni suo ritratto. Le linee dell’angolo portano inevitabilmente l’attenzione verso il soggetto. Nessuna distrazione e il massimo contrasto possibile: questo è l’approccio di Irving Penn nella fotografia di moda.
Nel 1947 incontra la modella svedese Lisa Fonssagrives durante un servizio fotografico e in seguito la sposa nel 1950, facendone la sua amante e musa.
Penn continuò la sua collaborazione con Vogue fino alla sua morte, avvenuta nel 2009, realizzando in 66 anni ben 158 copertine, numero mai raggiunto da nessun altro.
«Posso essere ossessionato da qualsiasi cosa se la guardo abbastanza a lungo. Questa è la maledizione di essere un fotografo»

Ottobre 1943

Novembre 1949

Aprile 1950

luglio 1952
I grandi spazi aperti
Anni ’50: la nuova donna di Richard Avedon e William Klein
Dopo la seconda guerra mondiale, la moda subisce importanti cambiamenti. Gli scatti in studio artificiosi e l’eleganza statica delle modelle dei primi decenni della fotografia di moda lasciano ora il posto a una nuova estetica più fluida, spontanea ed energica.
E a cambiare è anche l’immagine della donna che piano piano sguscia via dai canoni in cui fino ad allora era stata racchiusa, come testimoniano i nuovi approcci alla fotografia apportati da una nuova generazione di fashion photographer che iniziano a emergere in questo periodo.
Se i vari Irving Penn, Rawlings o Blumenfeld, che abbiamo già incontrato, raggiungono in questi anni l’apice del successo, in questa decade fioriscono insieme a loro, anche le carriere di fotografi che diventeranno i maggiori interpreti di questo cambiamento.
Il più famoso di questi è senza dubbio Richard Avedon (americano, 1923-2004) – di cui ho già parlato nell’articolo dedicato ai grandi maestri del ritratto, la cui estetica minimalista ebbe un profondo impatto soprattutto sul genere fashion.
Dopo essere stato uno dei primi studenti del Design Laboratory di Brodovitch, viene da costui inviato a Parigi nel 1946 per coprire le ultime collezioni delle principali case di moda. Giovani e piene di energia, le immagini che Avedon ha catturato per Harper’s Bazaar hanno rappresentato una nuova direzione per la fotografia di moda.

In omaggio a Munkácsi (Carmen in cappotto di Cardin)
Nel 1957 fotografa la modella Carmen in Piazza Francesco I di Parigi per American Harper’s Bazaar. La donna appare a metà passo, il suo cappotto Cardin fluttua dietro di lei. Entrambi i piedi sono sollevati da terra, come se una folata di vento l’avesse sollevata in aria.
Avedon intitola la fotografia In omaggio a Munkácsi, un riferimento a uno dei primi fotografi di moda a lavorare principalmente al di fuori dello studio, che già nel 1934 riprendeva una donna vestita in abiti eleganti nell’atto di saltare una pozzanghera, per uno scatto intitolato non a caso Jumping a Puddle.
Anche lo stile di Avedon era incentrato su una cosa: il movimento. Sostituisce le pose statiche e senza vita dell’era Steichen con fotografie piene di verve e vitalità. Evita lo studio, preferendo lavorare all’aperto o sul posto. Ama catturare vivaci scene di strada e feste affollate, le sue modelle sono fotografate sul momento, mostrando la loro naturale femminilità; i vestiti fluenti sembrano in qualche modo essere un’elegante estensione dei loro corpi.
Questo stabilisce un nuovo corso per la fotografia di moda e, per tutti gli anni ’50, lo stile di Avedon è stato molto imitato, ispirando fotografi come Henry Clarke a usare le strade della città come sfondo per le sue immagini. Nei grandi spazi aperti, un nuovo senso della vita poteva essere respirato nelle fotografie, con la bellezza dei modelli e degli abiti che indossavano direttamente rispecchiata nel dinamismo della composizione complessiva.
Altro artista, forse meno celebrato, ma la cui estetica contribuì non poco a ridefinire l’immagine della donna del periodo, è poi William Klein. Grazie alle sue immagini di rottura, quest’ultimo sbaraglierà ogni schema creando un vero e proprio spartiacque tra la fotografia del passato, dove la donna era spesso ritratta come figura fragile e debole e la donna libera ed indipendente che oggi conosciamo.
William Klein: l’antifotografo

William Klein
William Klein (1926-2022) è stato uno scultore, pittore, regista e fotografo nato a New York. Di origini ebree, cercò rifugio dall’antisemitismo americano degli anni ’30 nel MoMa, del quale fu un assiduo frequentatore.
A 18 anni, finisce nell’esercito, dove trascorre due anni in Francia e in Germania in qualità di operatore radio. Finita la guerra, comincia la sua carriera nel mondo dell’arte: La Sorbona di Parigi lo battezza nel 1948. La pittura sarà la sua prima passione. Ma già agli inizi degli anni ’50 fece ritorno a New York, dove iniziò a sperimentare anche il mezzo fotografico. I suoi scatti cominciano a ottenere visibilità, tanto da fargli guadagnare l’appellativo di “anti-fotografo”.
Dopo un’esposizione al Salon des Réalités Nouvelles di Parigi, William Klein viene notato dal direttore di Vogue America, Alexander Liberman. Ed è qui che comincia l’avventura di William Klein per la celebre rivista di moda. Lavorerà per Vogue fino al 1966, pur avendo un rapporto conflittuale con quell’ambiente. William non si sente un fotografo mondano ma un fotografo della realtà.
Ed è infatti nelle grandi città che dà il meglio di sé: i reportage di New York, , Mosca e Tokyo, danno vita ai suoi migliori lavori. C’è anche l’Italia, dove Fellini lo chiama per fargli da assistente sul set de Le notti di Cabiria. La sua rappresentazione di Roma è quella di un film neorealista, del quale possiamo quasi immaginare la trama: una Città Eterna che è rimasta tale solo nelle immagini di repertorio, trasudante un’umanità sudicia, appiccicosa e immortale.Le seducenti modelle, nel suo obiettivo, non posano in studio: attraversano le strisce pedonali di Roma, ora una scalinata, ora un set, ora davanti uno specchio.
Nel 1956, in Piazza di Spagna, un suo set viene preso d’assalto da uomini in cerca di divertimento, che scambiano le sue modelle per un gruppo di gentili passeggiatrici. Nello stesso anno, riesce anche a farsi censurare una foto, dopo aver ritratto una modella intenta a fumare una sigaretta. Decisamente troppo, per l’epoca.
Le sue fotografie non sono pulite ed ordinate. A predominare è il fuori fuoco, la “mal composizione”, il taglio particolare… Eppure sono dotate di una carica e di una vitalità che riuscì a sconvolgere un’intera generazione. Qualsiasi cosa fosse considerata “errore” dal mainstream fotografico del tempo, lui riuscì a trasformarlo in nuovo metodo espressivo.
Poliedrico, sfaccettato, innovatore: William Klein è molte cose e definirlo fotografo è quasi riduttivo. Si tratta anzitutto di un distruttore di schemi, capace di fondere stili e generi, cinema, fotografia e pittura. Si è spento a Parigi il 10 settembre 2022, all’età di 96 anni.
«Comunque vada, nessuna regola, nessuna proibizione, nessun limite».

Smoke+Veil-Paris (Vogue)

Mary+Dove, Cafe Paris (Vogue)

Nina+Simone, Piazza di Spagna, Rome (Vogue)

Simone+Sophia Loren
Altri fotografi che iniziano ad affermarsi dagli anni ’50 da ricordare: Norman Parkinson (britannico, 1913-1990).
Anni ’60: La Swinging London di David Bailey e l’arrivo del nudo
Gli anni ’60 sono universalmente riconosciuti come gli anni del boom economico e del rinnovamento generazionale. Arriva la rivoluzione sessuale, lWoodstock, i figli dei fiori, la minigonna resa popolare dalla stilista Mary Quant e il taglio geometrico a cinque punte sviluppato dall’hairstylist Vidal Sassoon, così anche la moda diviene meno formale, poiché la cultura giovanile richiede ora un look più “trendy” e “alla moda”, che nel 1965 viene ribattezzato “youth-quake” dalla nuova direttrice di Vogue Diana Vreeland.
Ora s’impiegano nuovi materiali, tessuti esotici, colori audaci e motivi contrastanti che enfatizzano la liberazione del corpo. A Londra, tre fotografi di moda iconoclasti provenienti dalla classe operaia: David Bailey, Terence Donovan e Brian Duffy – soprannominati la “Trinità Nera” dal fotografo Norman Parkinson – aprono la strada al look “Swinging London”, presentato in nuove riviste giovanili come Queen (rilanciato nel 1957) e Nova (lanciato nel 1965).

Jean Shrimpton, New York 1962
Bailey in particolare, che oltre a realizzare le foto delle copertine dei Rolling Stones, nel 1962 veniva assunto da British Vogue per rinnovare la sezione “Young Idea”, usò ampiamente lo “stile Avedon”, adattandolo però ai tempi che richiedevano una moda più giovanile, con un approccio documentaristico più vivace e spensierato in grado di collegare modelle, ambientazione e stile di vita come mai prima d’ora.
L’atmosfera dei suoi set e di quegli anni è stata catturata nel film di Michelangelo Antonioni Blowup (1966), in cui David Hemmings interpreta un personaggio in parte basato su Bailey.
E con Bailey, arrivano anche le modelle, o meglio, le modelle assumono ora una nuova importanza, poiché Jean Shrimpton (all’epoca 17enne quando per lei David Bailey lasciò la prima delle sue 4 mogli), Twiggy (letteralmente “stecchino”) alias della modella londinese Lesley Hornby, Edie Sedgwick (attrice e modella di Andy Warhol nota anche come musa fragile, morta non a caso a soli 28 anni) ed altre come Veruschka (malgrado il nome, tedesca, a cui il compagno e fotografo-regista Franco Rubertelli dedicò anche un film) e Penelope Tree (americana, anche lei legata sentimentalmente a Bailey, i cui look non convenzionali ne fecero la modella ideale per la moda hippy popolare nell’ultima parte del decennio) sono ora nomi familiari al pari dei loro fotografi, diventando di fatto le prime IT girl*.

Twiggy

Jean Shrimpton

Edie Sedgwick
IT GIRL*
it girl – bella ragazza alla moda che fa tendenza senza ostentare la sua femminilità. Le origini del termine risalgono ad una affermazione di Rudyard Kipling: It isn’t beauty, so to speak, nor good talk necessarily. It’s just ‘IT nell’anno 1904 e appartiene allo slang dell’alta borghesia britannica.
Mentre per il significato attuale si deve risalire alla pubblicazione, nel 1994, sul New Yorker, dell’articolo di Jay McInerney su Chloë Sevigny, Oggi, con l’avvento dei social, queste ragazze in grado di fare tendenza, sono meglio conosciute come influencers, cioè ragazze, più o meno giovani, che sono così popolari da essere immortalate ovunque per il loro outfit, look, make up.
Anche il nudo si affaccia per la prima volta sulla scena delle riviste manistream grazie ad Helmut Newton, un fotografo che, con le sue immagini sovversive e apertamente sessuali, eleva ad arte la fotografia di moda, diventandone per alcuni un guru, mentre per altri un misogino oltre il limite del politically correct…
Helmut Newton: il provocatore

Helmut Newton
Helmut Neustätder, in arte Helmut Newton (1920-2004), è un fotografo tedesco nato a Berlino da una ricca famiglia di origine ebrea. L’ambiente della borghesia berlinese gli permette di seguire le proprie passioni e di avvicinarsi al mondo della fotografia fin dalla giovane età: a soli 12 anni acquista infatti la sua prima macchina fotografica, iniziando poi a lavorare a soli 16 anni con la fotografa tedesca Elsie Naulander Simon.
Con la diffusione delle leggi razziali naziste, lascia la Germania nel 1938 e si imbarca da Trieste verso Singapore, ma poco dopo si vede internato ed espulso in Australia dalle autorità britanniche.
A Sydney lavora come raccoglitore di frutta e si arruola con l’esercito australiano per cui guida i camion durante la II Guerra Mondiale. Grazie alla devozione nei confronti del paese che lo ospita, nel 1946 ottiene la cittadinanza australiana, e nel 1948 conosce e sposa la modella, attrice e fotografa australiana June Brunnell (in arte June Browne o Alice Springs), alla quale resterà legato per oltre 50 anni.
Finita la guerra, Parigi, Monte Carlo e Los Angeles sono i set di un lavoro a stretto contatto con un jet set scintillante e dissoluto. Uno stile unico, una passione ossessiva per le donne e il nudo femminile, per il lusso e la trasgressione. Helmut Newton è stato il fotografo di moda per eccellenza, ma anche un raffinato interprete della realtà e della cultura, e un uomo dal grande senso dell’umorismo.
Particolarmente iconica è una sua foto dal titolo “Le Smoking”, scattata per la copertina di Vogue dell’aprile 1975 in cui Newton (noto come il “re dei kink” a causa della sua inclinazione per il feticismo), raffigura l’elegante modella androgina Vikebe, vestita con un tuxedo (smoking maschile) Yves Saint-Lauren con rigida cravatta bianca. Scattata in una stradina deserta e stretta di Parigi, di notte, senza alcuna illuminazione tranne che per i lampioni, l’immagine di Newton rendeva omaggio a Brassai, fu una foto capace di ridefinire l’idea di guardaroba femminile, quando, un decennio dopo, lo smoking diveniva uno dei capi più iconici, indossato da celebrità e modelle femminili come Bianca Jagger, Jerry Hall, Catherine Deneuve, Liza Minelli e Lauren Bacall.

“Le Smoking” Yves Saint Laurent, Rue Aubriot, Paris
Conteso dalle riviste di moda più prestigiose (ha lavorato per anni per le varie edizioni di Vogue), in cinque decenni di attività ha ritratto le donne e gli uomini più glamorous del pianeta. La fotografia di Newton trascende i generi e le classificazioni, esprime bellezza e seduzione e resta inimitabile nel tempo, raccontando storie surreali e dalle tinte forti, e intrecciandole a una narrazione parallela, combinando realtà e finzione in scenari anticonvenzionali.
«Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare, tre concetti che riassumono l’arte della fotografia».

Woman Examining Man

Catherine Deneuve per Esquire, 1976

Margareth Lahoussaye per Duvigny

Pubblicità per goielli
Altri fotografi che iniziano ad affermarsi negli anni ’60 da ricordare: Victor Skrebneski (americano di origini russo-polacche, 1929-2020), Bob Richardson (americano, affetto da schizofrenia, 1928-2005, padre di Terry, che ritroveremo più avanti) e Bert Stern (americano, 1929-2013), famoso soprattutto per aver ritratto Marilyn Monroe (6 settimane prima della sua morte) per un servizio (di oltre 2000 scatti) del 1962 uscito postumo su Vogue America.
Il ritorno in studio e l’inizio delle polemiche sessuali
Abbiamo appena visto come catturare il movimento al di fuori dei confini dello studio fosse ormai diventato il modus operandi di molti fotografi negli anni ’50- ’60. Ma in verità, fotografi come Irving Penn – che abbiamo già conosciuto – continuarono per tutti questi anni ad attenersi alle tradizioni dello studio. E anche se secondo alcuni il suo stile stesse iniziando a cadere in disgrazia, il fotografo più longevo nella storia di Vogue, continuò a influenzare il volto della fotografia di moda in modi sottili ma di vasta portata per molti anni a venire.
Sono questi gli anni della cosiddetta divisione tra le due diverse scuole di pensiero e di metodo – tra chi privilegiava la fotografia di moda realizzata in studio (geometrica, pulita, morbida, con illuminazione soffusa) e chi invece quella “in strada” (irregolare, “sporca” e soprattutto reale) – con ognuno intento a difendere il proprio lavoro o piuttosto a criticare quello degli altri colleghi…
Anni ’70: Guy Bourdin e la risposta femminista
All’inizio degli anni ’70, tuttavia, una rinascita del lavoro in studio era ormai ben avviata. Solo che a differenza dei loro precedessori dall’impostazione più classica o se vogliamo più glamour, una nuova generazione di fotografi iniziava a testare i limiti di ciò che nella fotografia di moda poteva essere ritenuto “accettabile”, sfidando temi potenzialmente controversi come la religione e la violenza, con nuove immagini di rottura caratterizzate dall’ampio uso di nudità femminile, sessualità palese e surrealismo.
Ancora una volta, Richard Avedon stava cavalcando la cresta di questa nuova ondata. Dopo aver firmato un accordo milionario per trasferirsi da Harper’s Bazaar a Vogue nel 1966, decise di tornare in studio per gran parte del suo lavoro fotografico di moda. Il suo caratteristico uso del movimento era ancora presente, così come la sua celebrazione della vitalità e della sessualità femminile complice. Mentre il lavoro di Helmut Newton, già iniziato qualche anno prima, continuava ad unire temi di ambiguità emotiva e sesso, catturando donne sicure di sé in ambienti glamour e artificiosi.
In contrasto con Avedon e Newton c’erano in qualche modo il parigino Guy Bourdin, il milanese Gian Paolo Barbieri e il tedesco Chris von Wangenheim, il cui immaginario sessuale veniva usato per raccontare in foto una storia diversa, fatta di immagini cupamente provocanti che si concentravano meno sugli abiti e più sul carattere della donna per lo più strapazzata o sottomessa.

Guy Bourdin
Il primo in particolare – nato il 2 dicembre 1928 a Parigi, è un ex pittore, ammiratore di Magritte e Balthus, che si avvicina alla fotografia altamente sperimentale come amico e protetto di Man Ray.
La sua cifra stilistica ha rivoluzionato lo scatto di moda, dal suo obbiettivo la seduzione femminile cambia registro e assume punte trasgressive, stemperato spesso dai colori laccati degli scatti.
Mentre i suoi critici dicono che Bourdin ha ridotto il corpo femminile alle sue parti più erotiche, spesso promuovendo visioni violente e misogine, i suoi sostenitori sostengono che ha creato il suo marchio unico di misticismo surreale.
Il suo lavoro pubblicitario alla fine degli anni ’70 (compresi i servizi per i marchi di calzature di lusso Charles Jourdan e Roland Pierre) spesso ritraeva la donna come debole e ammaestrata. Tuttavia il suo immaginario è innegabilmente accattivante, e l’uso di colori vivaci, surrealismo messo in scena e sesso ha influenzato il lavoro di fotografi di moda moderni.

Pubblicità per Charles Jourdan, 1976

Pubblicità per Charles Jourdan, 1977

Pubblicità per Charles Jourdan, 1979

Calendario Pendax, 1980
Gli anni ’70 sono però anche anni di profondi cambiamenti, non solo di costume (con l’invenzione dei jeans dall’iconica forma a zampa di elefante che inaugurano un’era di stili più pratici e casual), ma soprattutto sociali, come il femminismo, che influenzano l’industria della moda e il modo in cui le donne vengono rappresentate.
E inutile dire che – anche in risposta all’eccessiva e a volte impropria oggettivazione del corpo femminile da parte delle loro controparti maschili, le maggiori interpreti di questa prima era del femminismo sono soprattutto fotografe donne, come Eve Arnold (americana, 1913-2012), o le ex modelle Deborah Turbeville (americana, 1937-2013) e Sarah Moon (francese, 1941), capaci di portare, con le loro immagini altamente contempletative, nuove prospettive a pubblicazioni come Vogue e Harper’s Bazaar.
Sarah Moon: la modella fotografa

Sarah Moon
Sarah Moon, alias di Marielle Warin, nasce a Vernon (Francia) nel 1941. Quando i nazisti arrivano a Parigi, la famiglia di origine ebraica è costretta a scappare in Inghilterra. Qui Sarah trascorre i primi anni d’infanzia. Dopo aver studiato disegno, lavora come modella di moda a Londra e Parigi (1960-1966) con il nome d’arte di Marielle Hadengue.
Quando raggiunge l’età dei trenta anni abbandona la carriera di modella e a partire dal 1970 si pone dall’altra parte dell’obiettivo. Da questo momento nasce uno stile fotografico che solo lei ha saputo veicolare in modo così raffinato. con immagini profonde, leggermente anticate nella loro estetica e raffiguranti un mondo sognante ed etereo.
Non a caso, ha lavorato moltissimo per Cacharel, Chanel e Dior, incarnando in modo impeccabile le loro creazioni e i profumi che in quegli anni erano considerati un must. È stata anche la prima donna a fotografare il Calendario Pirelli nel 1972. Nonostante la fama, ha abbandonato gradualmente il lavoro commerciale e la fotografia di moda, per dedicarsi alla ricerca personale attraverso i linguaggi della fotografia puramente artistica e del video.
«Credo che l’essenza della fotografia sia il bianco e nero. Il colore non è che una deviazione».

Ingrid Boulting per Biba cosmetici, 1968

Loulou, pubblibità per Cacharel profumi, 1987

Yoji Yamamoto, 1996

John Galliano per Christian Dior 1999
L’era del consumismo dilagante
Anni ’80: il ritorno del lusso e l’ascesa delle top model
Racchiusi nelle parole chiave colore, lusso, magneficienza, gli anni ’80 sono l’inizio di una nuova coraggiosa frontiera per la fotografia di moda, tornata definitivamente in sala posa. Il consumismo, una forza che era rimasta in qualche modo dormiente per gran parte dei precedenti 60 anni, improvvisamente alzò la testa. La moda stava iniziando ad avere un fascino più ampio mentre l’Europa e la fiorente classe media americana si interessavano maggiormente a ciò che indossavano. Tutti avevano più soldi da spendere (anche chi non ne aveva) e marchi di moda come Calvin Klein, Levi’s, Ralph Lauren e molti altri (che ora andavano orgogliosamente esibiti), erano fin troppo felici di afferrarli.

Brooke Shields, 1980
Una straordinaria campagna del 1980 con una 15enne Brooke Shields lo ha riassunto perfettamente. Scattata dall’onnipresente Richard Avedon, la pubblicità per i jeans Calvin Klein vedeva la Pretty Girl d’America dichiarare con orgoglio che nulla poteva frapporsi tra lei e i suoi Calvin.
Era una frase che usciva direttamente dal taccuino di un pubblicitario, ma ha attirato l’attenzione del pubblico. Quasi da un giorno all’altro ha reso i jeans Calvin Klein un prodotto molto desiderato.
Ma insieme a jeans e capi firmati, ad essere desideratissimi, sono anche gli accessori e gioelli, simbolo di opulenza. Il consumismo dilagante ha ormai trasformato la moda in un’industria internazionale in forte espansione, alimentata da campagne pubblicitarie e spot televisivi che utilizzano anche registi famosi per dare vita ai loro prodotti sul piccolo schermo. È in questi anni che Martin Scorsese gira due celebri spot per l’amico Armani, che poi omaggerà anche nel suo documentario “Made in Milan” (1990).
La nascita delle Big Five

Tatjana Patitz (1966-2023)
È sempre in questi anni che inizia ad affermarsi uno dei gruppi di modelle più influente ed idolatrato passato alla storia come il Big Five, la cui fama e potere sociale avrebbe superato quello di molte star del cinema e della musica del periodo.
Le Big Five originali erano composte dalle top model Naomi Campbell, Cindy Crawford, Christy Turlington, Linda Evangelista e Tatjana Patitz (con quest’ultima venuta a mancare l’11 gennaio 2023 alla giovane età di 56 anni a causa di un cancro).
Naomi Campbell, soprannominata “la Venere nera”, era la prima donna nera ad apparire sulle copertine di Time e Vogue Francia e America. Cindy Crawford era in quegli anni la modella più pagata del pianeta secondo Forbes, che la accredita di un patrimonio accumulato in carriera di 400 milioni di dollari. Christy Turlington era nota per essere una modella affidabile che ha raccolto oltre 500 copertine durante la sua carriera e, in particolare, ha firmato un contratto con Maybelline per un compenso annuale di 800.000 $ per dodici giorni di lavoro. Linda Evangelista era conosciuta come il “camaleonte” del settore per la sua capacità di adattarsi a una moltitudine di stili. Tristemente sua anche la frase: “Non ci svegliamo per meno di 10.000 $ al giorno”. Tatjana Patitz, l’ultima delle Big Five, era particolarmente richiesta da case di stilisti come Jean-Paul Gaultier e Chanel.

5 supermodelle fotografate da Herb Ritts nel 1990
Sebbene i loro nomi offuscassero ormai quello dei loro fotografi e degli stilisti per cui sfilavano (come non sarebbe mai più successo), a meglio immortalare la loro bellezza inarrivabile furono in quegli anni soprattutto Herb Ritts (che le ritrate in un celebre scatto collettivo del 1990 in cui Stephanie Seymour sostituisce l’assente Evangelista), e in maniera più giocosa Peter Lindbergh e Steven Meisel, che le immortalò in alcuni degli scatti che seguono.

Naomi Campbell

Cindy Crawford

Christy Turlington

Linda Evangelista
Intanto, nel 1988 Anna Wintour (a cui è ispirato il personaggio di Miranda Priestley, interpretato da Meryl Streep ne Il Diavolo Veste Prada), diventa direttrice dell’edizione americana di Vogue, scegliendo per il suo debutto la modella israeliana Michaela Bercucon, fotografata da Peter Lindbergh, che rappresenta anche la prima foto di una modella in jeans sulla copertina della rivista di moda più importante al mondo. Un modo per affermare che tempi stavano cambiando, anche per quanto riguarda una nuova generazione di fotografi di moda che iniziava ad affacciarsi in questo periodo.

Se Helmut Newton era ancora al suo posto, come anche Irving Penn, ancora a suo agio nello studio (collaborò in questo periodo con il designer giapponese Issey Miyake per una serie avvincente e innovativa di campagne pubblicitarie), la Wintour si circonderà negli anni di fotografi di moda che aiuterà, con l’edizione francese e italiana della rivista, ad imporre come i migliori del genere: Patrick Demarchelier (francese, nato nel 1943), fedele fotografo di Dior e Herb Ritts (americano, 1952-2002) spesso associato a Madonna, così come Steven Meisel e Satoshi Saïkusa che lavoreranno anche per Franca Sozzani di Vogue Italia, e Mario Testino che collaborerà spesso anche con Vogue Paris e Spagna.
Anche la moda maschile cresce in una propria industria, con fotografi come Steven Klein (americano, nato nel 1965) e Bruce Weber (americano, nato nel 1946), noti per il loro lavoro per marchi come Armani e Calvin Klein, accreditati di portare nuove prospettive al concetto di mascolinità.

Marcus Schenkenberg
E con loro, c’è spazio anche per i primi top model maschili in grado di riscuotere una certa fama, con Markus Schenkenberg (svedese) spesso citato come il primo, che viene presto raggiunto da Mark Wahlberg, Joel West, John Pearson e Renauld White.
Sebbene per loro sia stato coniato l’appellativo di “High Five”, inutile dire che il loro brand non raggiunse mai quello delle Big Five, diventando anzi spesso un simbolo della sottomissione dell’uomo trattato ora come oggetto, nelle tante campagne pubblicitarie a tema del periodo.
Altri fotografi che iniziano ad affermarsi negli anni ’80 da ricordare: Annie Lebowitz (nata nel 1949, ancora oggi la più nota fotografa americana in attività), Steve Johnson che preferendo utilizzare modelle non professioniste, divenne famoso per lo stile “straight up”, una fotografia che mostrava la modella per intero (dalla testa ai piedi) e Oliviero Toscani (italiano, nato nel 1942), che si ami o che si odi, è indiscutibilmente da sempre uno dei più grandi fotografi di moda e attualità del nostro tempo.
Anni ’90: l’età d’oro della pubblicità
Negli anni ’90, la moda cambia radicalmente Vi è infatti un ritorno alla moda minimalista, anche in aperto contrasto con le tendenze più elaborate e appariscenti degli anni ’80, che sfocerà nell’Antifashion (o antimoda), grande movimento nato all’inizio di questi anni come rifiuto del materialismo che aveva caratterizzato il decennio precedente. Altro cambiamento notevole è l’adozione mainstream dei tatuaggi, piercing o in misura molto minore, altre forme di modificazione del proprio corpo.
Questo approccio anticonformista alla moda porta alla divulgazione di un look grunge, semplice e trasandato (ispirato alla popolarità della musica rock alternativa di quel periodo), molto in voga tra i più giovani, che includeva T-shirt, jeans, felpe con cappuccio e scarpe da ginnastica.
Con l’arrivo di Internet e dei primi programmi di fotoritocco che fanno capolino in questi anni, nuove pubblicazioni di stile rivolte a entrambi i sessi, definite non a caso “New Style”, combinano la moda ad articoli sulla musica contemporanea, la cultura e le tendenze emergenti.
Già negli anni ’80 Terry Jones, ex art director di Vogue, aveva lanciato i-D, una rivista bimestrale progettata per assomigliare a una fanzine e il cui contenuto poneva l’accento sulla cultura giovanile e sullo street style. Mentre in questi anni le nuove riviste britanniche The Face e Dazed and Confused (in seguito solo Dazed) o l’americana Allure, emergono come contrappunto alla perfezione aerografata delle principali riviste patinate, con pagine popolate da figure che rappresentano tipi alternativi di bellezza, che spesso non sono modelle professioniste. Le quali però non sono certo sparite, anzi…

Claudia Schiffer per Guess Jeans, Viareggio, Italy (1989)
Per tutti gli anni ’90, le top model continuano a dominare l’industria della moda. Dopo il ritiro dalle passerelle di Tatjana Patitz (che inizia a recitare in alcuni film), questa viene sostituita nelle Big Five da un’altra top model tedesca.
Parliamo naturalmente di Claudia Schiffer, la top model con il record per il maggior numero di copertine di riviste (oltre mille) secondo il Guinness dei primati, che sale alla ribalta in questi anni grazie ad alcuni scatti in bianco e nero di Ellen von Unweth per una celebre campagna Guess del 1989 (un sodalizio che si ripeterà 23 anni dopo).
Più in là del decennio, le big five verranno affiancate dalle emergenti Lætitia Casta, Milla Jovovich, Eva Hergizova e Monica Bellucci, che utilizzerano la passerella come trampolino di lancio per il cinema o da vere professioniste del settore come Helena Christiansen, Elle Macpherson, Heidi Klum o l’italiana Carla Bruni.
Peter Lindbergh: il fotografo delle supermodel (e delle star)

Peter Lindbergh
Nato nel 1944 a Leszno, in Polonia, Peter Lindbergh era di nazionalità tedesca. La sua formazione è correlata alla sfera artistica: ha studiato pittura presso il College of Art di Krefeld, tenendo sempre tra i suoi riferimenti Joseph Kosuth e il movimento concettuale; prima di laurearsi, viene invitato alla Galerie Denise René – Hans Mayer nel 1969, dove ha debuttato.
L’iniziazione alla fotografia avviene a Düsseldorf dove si trasferisce, lavorando a fianco del fotografo tedesco Hans Lux; due anni dopo aprirà il suo studio (siamo nel 1973).
Il salto in avanti avvenne a Parigi alla fine degli anni ’70, dove entra in contatto con personalità del calibro di Helmut Newton, Guy Bourdin e Hans Feurer e elabora un nuovo concetto di ritratto fotografico. Diventa famoso per ritrarre le figure femminili nella loro bellezza naturale, ribaltando gli standard di bellezza artificiosi della moda e privilegiando i tratti caratteriali di ogni soggetto che affiorano attraverso espressione e gestualità.
Sebbene abbia fotografato le più grandi star del mondo tra cui Lady Gaga, David Beckham, Kate Winslet e Rihanna, Lindbergh è probabilmente meglio conosciuto da molti come il fotografo responsabile del fenomeno delle top model.
Anche se, come abbiamo già visto, queste cominciarono ad affermarsi a fine anni ’80, quando proprio Lindbergh le fotografava in camicia bianca (più sotto) sulla spiaggia di Santa Monica per un servizio realizzato per Vogue nel 1988, è sempre con una sua foto, questa volta realizzata per la copertina di British Vogue del gennaio 1990, che abbiamo la nascita ufficiale delle Big Five, ritratte per la prima volta tutte insieme.
Per Lindbergh, le modelle rappresentavano la donna ambiziosa, potente e libera. Attraverso la sua lente, erano diventate eroine del loro tempo, del futuro, e quindi “Super”.

E “super” erano decisamente anche le risorse che riviste e case di moda erano ben felici di mettergli a disposizione, con i suoi set che assomigliavamo sempre più alle grandi produzioni hollywoodiane con tanto di esplosioni o ricostruzioni scenagrofiche di periodi storici come il dopoguerra. Come ha peraltro ben documentato il documentario “Eye” a lui dedicato su Netflix.
Non è un caso che la fotografia di Peter Lindbergh vada ben oltre il suo lavoro di moda e ritratto. È stato anche un fotografo pubblicitario di successo per molti anni creando locandine cinematografiche e copertine musicali di dischi per star come Beyoncé (I am Sasha Fierce), Sheryl Crow (The Globe Sessions) e Tina Turner (Foreign Affair).
Si è inoltre cimentato nel cinema e ha diretto diversi cortometraggi e documentari: Models: The Film (1991), Inner Voices (1999), Pina Bausch (2002) e Everywhere at Once (2008). È venuto a mancare il 3 settembre 2019, all’età di 74 anni.
«La fashion photography è soprattutto finzione. La fantasia è tutto perché da quando le immagini crescono nella tua testa inizi a costruirci qualcosa. Allora prendi le persone giuste. Vai nel posto giusto, e quei piccoli pensieri diventano immagini – questo è ciò che chiami fantasia»

The White Shirts, Vogue USA, California (Agosto 1988)

The Wild Ones per Vogue USA, Brooklyn, New York (1991)

Peter Lindbergh per Dior

Cate Blanchet by Peter Lindbergh
Ma se le top-model e relativi fotografi d’adozione, diventano in questi anni delle icone, il merito è anche e soprattutto delle case di moda e dei loro stilisti. Dai forti modelli femminili ritratti da Donna Karan, al sogno americano rappresentato da Ralph Lauren, gli anni ’90 sono in effetti visti da molti come l’età d’oro della campagna pubblicitaria.
Non di meno, le case italiane (con in testa Armani e Versace, che in questi anni compaiono sulle copertine di Time) continuano a dare energia alla moda introducendo stili sofisticati e colorati, che non riguardano più solo i vestiti. Anche le borse, gli occhiali ed i profumi, fonte di reddito aggiuntivo, diventano un elemento essenziale per questi marchi, insieme alle linee complementari di ready-to-wear e accessori. Il loro successo durerà per tutto questo periodo.
Ancora una volta, Calvin Klein è abilissimo nel saper cavalcare l’onda, alzando il tiro con una trasgressiva campagna del 1992. Con Mark Wahlberg in coppia con un’emergente Kate Moss, gli scatti in bianco e nero minimalista di Bruce Weber catturano l’essenza di questa nuova direzione. La semplice immagine di entrambi, in topless, con biancheria intima chiaramente marchiata era tutto ciò che era necessario per trasmettere il messaggio. E ha funzionato.
Un po’ meno la successiva campagna del 1995 per il profumo Obsession, sempre di Calvin Klein, in cui la modella appariva completamente nuda, e che in seguito alle forti polemiche (all’epoca degli scatti realizzati qualche anno prima dal compagno di allora Mario Sorrenti, la Moss era presumibilmente minorenne), veniva ritirata dopo 3 settimane.

Mark Whalberg e Kate Moss per Calvin Klein, 1992
L’ingresso sulla scena di Kate Moss ha inoltre trasformato le Big Five nelle Big Six. Pur non rientrando nei canoni di bellezza del periodo, la modella inglese è diventata uno dei più grandi fenomeni degli anni Novanta quando, a 14 anni, fu scoperta all’aeroporto JFK da Sarah Doukas, fondatrice dell’agenzia di moda Storm. La sua figura simile a un gilet ha stabilito un nuovo standard di moda che è diventato noto come “heroin chic”: lo stile degli anni ’90 che esaltava modelle dallo sguardo pallido e spettrale (come se sotto effetto da sostanza), una statura sottile e un corpo androgino di taglia zero, in reazione al salutismo patinato del decennio precedente. A causa della sua corporatura estremamente magra, la Moss è stata spesso criticata per aver presumibilmente promosso disturbi alimentari, e insieme a lei tutta l’industria della moda in generale ritenuta responsabile di aver celebrato scelte di vita pericolosamente malsane.
In seguito a queste polemiche, diversi fotografi inizieranno ad adottare un approccio più documentaristico alla loro fotografia di moda, mentre altri preferiranno spingere sull’acceleratore…
Altri fotografi che iniziano ad affermarsi negli anni ’90 da ricordare: Corinne Day (inglese, che ha contribuito a diffondere un nuovo tipo di immagine di moda, che presentava modelle trasandate in ambienti squallidi) David Sims e Jason Evans.
Tempi moderni
Anni 2000: l’ipersessualità
Come l’umanità ha completamente stabilito nel corso dei decenni, il sesso vende. Ma, mentre persone come Helmut Newton e Guy Bourdin avevano usato ampiamente le immagini per il loro sex appeal negli anni ’70, gli anni 2000 hanno inaugurato una nuova era di ipersessualità che è stata progettata tanto per scioccare quanto per vendere vestiti.
Un uomo che non aveva paura di usare la carne per spingere i suoi prodotti era sicuramente Tom Ford. L’iconica campagna del 2007 per la sua prima fragranza For Men, realizzata dall’ex amico delle star Terry Richardson, ha mescolato l’inclinazione di Ford per le immagini sessuali con l’estetica rigida e immediatamente identificabile di Richardson (in seguito coinvolto negli scandali sessuali in periodo di Me Too che ne causeranno l’allontamento da Vogue).

Pubblicità di Terry Richardson per Tom Ford, 2007
Bourdin ebbe chiaramente un’enorme influenza su questo lavoro (e su altri successivi basati sullo stesso mood). Le inquadrature in studio altamente manipolate, l’uso del colore e la rappresentazione leggermente sinistra della sessualità femminile sono tutti presenti.
Il posizionamento strategico della bottiglia di profumo lascia poco all’immaginazione, e la campagna ha causato molte polemiche, così come molta pubblicità per Ford.
Un’altra chiacchieratissima campagna della scuderia Tom Ford era già stata lanciata nel 2003 mentre lo stilista lavorava per Gucci. Stilizzata e semplicistica, questa pubblicità, scattata da Mario Testino, ha attirato molta attenzione in quanto presentava una modella femminile con la “G” di Gucci rasata nei peli pubici. Meno improntata sull’abbigliamento e più sulla promozione, è stata comunque una mossa audace per Ford, che ancora una volta ha dimostrato il vecchio adagio che non esiste una cattiva pubblicità, se fa vendere.
Terry Richardson: il fotografo pornografo (silurato dalla moda)

Terry Richardson
Nato a New York nel 1965, ma cresciuto in California, Terry Richarson è un figlio d’arte. Suo padre Bob Richardson era a sua volta un famoso fotografo di moda negli anni Sessanta.
Costui lasciò la moglie per una 17enne quando il figlio aveva pochi anni, e i due non ebbero quasi alcun rapporto per i successivi 20 anni, fino a quando Terry, dopo un’esperienza musicale durata 5 anni nel gruppo punk-rock The Invisible Government, non iniziò a lavorare come fotografo: il padre gli passò i suoi contatti e finì per lavorare con lui; durò sei mesi, poi il figlio lo scaricò, si mise in proprio e da quel momento la sua carriera iniziò a ingranare, mentre il padre si ritrovò successivamente a vivere da senzatetto nelle strade di Los Angeles a causa di problemi con le droghe e di attacchi di schizofrenia.
La sua carriera inizia negli anni ’90, con scatti che sapevano essere anche divertenti, giocosi, allusivi, ispirati al pulp, sebbene ai limiti del soft-porn, diventando anche famoso per scattare foto di modelle nude mentre è nudo a sua volta: per mettere tutti più a loro agio, sostiene lui… Nel tempo l’elemento sessuale diviene sempre più presente, come anche quello volutamente trasgressivo in campagne assai controverse e spesso anche censurate. Insieme a quelle per Tom Ford che abbiamo già visto, anche quelle nate della collaborazione fra Terry e Sisley con varie ragazze alle prese con lo schizzo di latte proveniente dalla mammella di una mucca per la campagna “Farming” del 2001, o quella altrettanto controversa e famosa intitolata “Fashion Junkie”: l’incarnazione stessa del concetto di heroin chic (anche se la fotografia è del 2007). Due ragazze, trucco pesante e aspetto emaciato, nell’atto di “sniffare” un abito bianco posizionato in modo da ricordare la sostanza (comunque presente all’interno di una bustina trasparente).


Insieme alle campagne scandalose e ai calendari per Pirelli che con lui ritorna al nudo esplicito nel 2010, non mancano poi gli scatti con personaggi più che famosi. Ha ritratto il presidente Barack Obama (nel 2007) e Oprah Winfrey, pubblicato numerosi libri di fotografia, tra cui uno su Lady Gaga, e diretto video pop come Wrecking Ball, con Miley Cyrus nuda, a parte un paio di Dr Martens, su una palla gigante, e XO di Beyoncé. Negli ultimi vent’anni Richardson ha in effetti dominato il mondo della fotografia di moda diventando uno degli artisti più richiesti e pagati. Nel 2013, per dare un’idea, guadagnò 44 milioni di sterline (49 milioni di euro).
E questo nonostante le accuse e denunce per molestie che nel frattempo iniziarono a venir fuori in tempo di Me Too, anche se risalenti a molti anni prima. La prima nel 2005, quando la modella romena Gabriela Johansson lo denunciò per un fatto avvenuto durante un servizio fotografico, quando Richardson la obbligò a togliersi tutti i vestiti anziché solo il top come da contratto, e poi pubblicò le foto che la ritraevano completamente nuda. In seguito Rie Rasmussen, una modella danese, lo accusò di aver utilizzato il proprio potere per costringerla ad avere rapporti con lui. E qui la lista si allunga. Nel 2013 una ragazza britannica pubblicò una petizione su Change.org per chiedere alle aziende e alle rivista di moda di non lavorare più con quel «molestatore sessuale e fissato di pornografia» di Terry Richardson.
Il sito femminista Jezebel lo definì «il fotografo più perverso al mondo», riportando altri episodi raccapriccianti a suo carico. Il Guardian disse che era «il vergognoso segreto della moda» e un «maniaco sessuale con la macchina fotografica». Wonkette scrisse che era «il prossimo più grande pezzo di merda americano». Ciononostante è solo in seguito ad un articolo del giornale britannico Sunday Times, che si domandava perché il mondo della moda continuasse a lavorare con Richardson, che nel 2017 che Condé Nast International (il gruppo di Vogue) ha annunciato che non avrebbe più lavorato con lui, unendosi così alle tante pubblicazioni e casedi moda che iniziarono a bannarlo dal settore.
L’impressione è che, come già avvenuto per il caso Weinstein, anche il mondo della moda – modelle, celebrità, direttori di riviste, fotografi, critici – fosse a conoscenza del comportamento di Uncle Terry (come il fotografo amava farsi chiamare dalle sue modelle amiche) e lo tollerasse, sminuisse e coprisse, con molte donne che finivano per lasciar correre temendo di avere la carriera rovinata e altre che lo assecondavano per finire su una copertina.
Che ci piaccia o no, è anche questa (triste) storia della fashion photography.
«Come Robert Mapplethorpe, Helmut Newton e tanti altri prima di me, le immagini sessuali hanno sempre fatto parte della mia fotografia.»

Lindsay Lohan

Lady Gaga – Supreme Skateboards

Amy Winehouse, 2011

Kyle Jenner
Marc Jacobs e il dress code da tribunale
Sebbene non contrario all’uso di immagini sessuali nella sua pubblicità, rispetto a Tom Ford, lo stlista Marc Jacobs ha intrapreso un percorso diverso negli anni 2000 insieme al collaboratore di lunga data Juergen Teller. Lo stile fotografico distintivo di Teller ha giocato un ruolo enorme nelle campagne promozionali di Jacobs e differiva enormemente dagli scatti glamour e altamente stilizzati dei suoi contemporanei.
Un esempio straordinario in questo senso è quello offerto da Winona Ryder nel 2003. Essendo stata arrestata l’anno prima per taccheggio ai grandi magazzini Saks di Beverly Hills, l’attrice arrivò in tribunale indossando un abito di Marc Jacobs. Individuando un’opportunità, Jacobs l’ha assunta, e l’ormai famigerato servizio fotografico di Jergen Teller che ne consegue racchiude la sua irriverente visione del design con un atteggiamento da diavolo.
Insieme al sesso, anche l’approvazione delle celebrità ha continuato a essere una forza trainante per il settore. In effetti, le case di moda sono attente all’ampio fascino degli spiriti ribelli e “turbati” con Miley Cyrus che lavora sempre per Marc Jacobs, Lady Gaga per Versace e Lindsay Lohan per Miu Miu.

Moda fast vs. moda slow
Parlando più di moda e meno di pubblicità, i primi anni del nuovo millennio sono spesso descritti come un gran miscuglio di stili precedenti. La globalizzazione ora permette di incorporare nelle nuove tendenze stili di diversi continenti, come abiti mediorientali e asiatici nella moda europea, americana e australiana, che vedono anche un revival su larga scala di modelli di abbigliamento principalmente dagli anni sessanta, settanta e ottanta.
E anche se nata negli anni ’80 (con negozi come Wet Seal e American Apparel) che furono precursori americani dell’impero della moda veloce, è in questo periodo che, con la proliferazione dello shopping on line e la possibilità dei resi, fiorisce o meglio esplode il consumo di fast fashion: abbigliamento economico basato sugli ultimi modelli di alta moda.
Si calcola che nel 1999, le grandi catene come Macy’s, JC Penney, Kohl – ai quali presto si aggiunsero i nuovi marchi low-cost del nuovo millennio come Forever 21, Zara e ovviamente H&M – registravano vendite per un totale di 230 miliardi di dollari.
È il 2004 quando proprio il gigante della vendita al dettaglio svedese H&M, un maestro nella realizzazione di fast fashion, collaborò con lo stilista tedesco Karl Lagerfield, per introdurre una collezione unica che si rivelò un enorme successo: i capi andarono a ruba nel giro di un’ora.
Con quella collezione H&M inaugurava ufficialmente la Designer Collaboration, un’idea che negli anni successivi è diventata un appuntamento culto degli amanti della moda, snocciolando, nel corso di questo decennio, partnership stilistiche con altri grandi nomi della moda.

Karl Lagerfeld per HM, 2004
Altri stilisti come Armani iniziavano invece a vedere con preoccupazione questo fenomeno: se da una parte la moda veloce, con il suo fascino a basso costo e i modelli basati direttamente dalla passerella, è stata un fattore significativo nella crescita del settore della moda, dall’altra innescava un circolo vizioso, visto che il basso costo di un capo di abbigliamento nasconde sempre un alto costo ambientale e sociale.
Come avrebbe purtroppo dimostrato la tragedia di Rana Plaza, in cui il 24 aprile del 2013, a Dacca, capitale del Bangladesh, morirono 1.129 persone nel crollo di una palazzina di otto piani dove erano collocate 5 diverse fabbriche tessili di abbigliamento per marchi internazionali.

Anche l’industria dell’alta moda iniziava quindi a dover rispondere a preoccupazioni etiche maggiormente sentite in questi anni. L’uso di manodopera sfruttata o gli effetti ambientali del processo di produzione, ad esempio, hanno avviato uno spostamento dell’enfasi verso una rappresentazione più diversificata del prodotto – anche tramite l’utilizzo di pubblicità e testimonial più inclusivi – per promuovere una maggiore consapevolezza sociale.
Almeno è con questo obiettivo che, sul finire del decennio, alcuni stilisti come Stella Mccartney, figlia d’arte, o l’italiana Quagga, pongono ad emblema dei loro brand l’eco fashion, in seguito ribattezzata anche slow fashion: la moda sostenibile, etica e circolare, nata come un fenomeno da contrapporre a quella più consumistica della fast fashion. Che comunque, va detto, continuerà a far tendenza…
Anni 2010-2020: la rivoluzione social

La top model italiana Vittoria Ceretti durante una sfilata a Montecarlo per la linea Crociera 2022/2023 di Chanel
Ed eccoci finalmente arrivati ai giorni nostri, con gli anni 2010/2020 rappresentati da una nuova generazione di brand/stilisti (Louisa Ballou, Ottolinger, George Trochopolous, Mozh Mozh e gli italiani Andrea Adamo e Federico Cina) resi famosi dalle nuove top-model.
Se a dominare il decennio precedente erano state le brasiliane Giselle Bündchen (dal 2002 al 2017 l’indossatrice più pagata) e Adriana Lima, la russa Irina Shayk (testimonial ufficiale di Intimissimi) o le italiane Bianca Balti, Eva Riccobono e Mariacarla Boscono, ad affiancarle o a prenderne il posto c’è una nuova generazione di fashion icon rappresentate da Kendal Jenner, le sorelle Bella e Gigi Haddid, Cara Delevingne, Kaya Gerber, Sara Sampaio e l’italiana Vittoria Ceretti, la cui popolarità e “vendibilità” si misura adesso non più in numero di copertine, ma in followers.
Sono infatti questi gli anni inevitabilmente caratterizzati dalla nuova rivoluzione social che è tutt’oggi ancora in atto. Il cambiamento più profondo per le riviste di moda è arrivato nel modo in cui la fotografia di moda e le relative campagne pubblicitarie vengono ora consumate.
Se i fashion blogger come Scott Schuman di The Sartorialist o, per rimanere in casa nostra, Chiara Ferragni avevano aperto la strada nel decennio precedente, a sfidare l’egemonia di lunga data dei media di moda basati sulla stampa, sono ora soprattutto i social media come Instagram (2010) e TikTok (nato in Cina nel 2014, ma che avrà il suo exploit nel 2020), che con il loro flusso pressochè infinito di immagini e video, forniscono ora nuove strade non solo agli aspiranti fotografi di moda ma anche a quelli più che affermati.
Visti da molti come una nuova democrazia in quella che è stata considerata un’industria elitaria, altri vedono questi sviluppi tecnologici come la fine della lunga e orgogliosa eredità avanguardista dell’industria della moda (negli ultimi anni la quantità di pagine dedicate all’anno alla pubblicità su Vogue e le altre riviste è diminuita del 15-20%).
Per non perdere ulteriore terreno, i “vecchi media” hanno dovuto dunque adottare nuove strategie, che includono anche una tacita accettazione del fatto che le immagini potrebbero non arrivare mai vicino a una pagina patinata di una rivista A4 e potrebbero essere consumate solo su un feed di social media a scorrimento, con i contenuti che oggi vengono creati per essere condivisi, apprezzati e ritwittati.
Per molti marchi, i lookbook sono le nuove campagne pubblicitarie: più economiche da produrre, più facili da consumare e più adatte alla distribuzione su mezzi digitali.
E con la fotografia post-moderna si apre, o meglio si chiude, almeno per il momento, anche un nuovo capitolo di questa storia, visto che se avete voglia di sapere come prosegue, devo necessariamente rimandarvi alla seconda parte di questo nostro ritratto alla moda.
Alla prossima puntata
Eccoci dunque arrivati al capolinea di questo lungo e – per quei pochi temerari che sono riusciti ad arrivare alla fine – spero anche interessante viaggio nel tempo, in cui per ovvie ragioni di spazio non mi è stato possibile approfondire l’opera di altri grandi artisti della fotografia di moda ai quali ho potuto solo accenare.
Appuntamento dunque, se ne avrete voglia, alla seconda parte di questo racconto che, dopo la storia del genere, andrà a concentrarsi più diffusamente sulla sua più recente evoluzione, questa volta con alcuni ritratti degli artisti fotografi più emergenti, soprattutto su Instagram.
Grazie intanto per avermi letto fin qui e buona fashion-fotografia!
Articoli correlati
Still life fa rima con fantasia
Che cos’è la fotografia di still life? Alla scoperta del genere fotografico che ha rivoluzionato lo stile della fotografia commerciale
Ritratto del ritratto – Parte 2
Seconda parte del nostro viaggio nella fotografia di ritratto: dagli approcci fotografici ai grandi maestri del ritratto.
Ritratto del ritratto – Parte 1
Prima parte di un breve viaggio nella fotografia di ritratto: dai primi ritratti su lastra ai moderni selfie.
Lascia un commento
Mi fa piacere rispondere alle tue domande e sapere cosa ne pensi dell’articolo, lascia un commento.
Ai fini di una migliore leggibilità delle discussioni (soprattutto di quelle molto partecipate), si consiglia di iniziare sempre un nuovo commento compilando i campi sopra il pulsante “Invia commento“. A meno che non vogliate rispondere ai commenti già inseriti da altri utenti. In quel caso utilizzare prima il pulsante “Rispondi”.
Piu’ che un articolo è una piccola enciclopedia di moda e stile che attraversa piu’ di un secolo della storia mondiale della fotografia dedicata all’affascinante mondo delle modelle e dei cambiamenti subiti nell’emisfero fashion. Complimenti a Manuela per questo lavoro davvero minuzioso e preciso.
Grazie Massimo, per le definizioni scelte e l’idea che hai espresso circa questo lungo e ricco articolo che ha cercato di racchiudere in una manciata di paragrafi, molto del bello, sensazionale, artistico e unico mondo che svela la fotografia di moda e non solo. Continua a seguirmi!
ENCICLOPEDICA. Grazie Manuela! vista la mia scarsa cultura, potrò avvicinarmi anche a questo stile anche se solo leggendo. Apprezzamento sincero per quanto mi riguarda, spettacolo di lavoro!!! Grazie ancora.
Grazie a te Mario, per i complimenti sinceri che esprimi di volta in volta, ne sono sempre molto lusingata!
La cronistoria del genere fotografico, a mio avviso, per eccelenza, passata in rassegna in modo perfetto. Dettagliata, completa, esaustiva. Per gli appassionati, un viaggio indimenticabile in un universo da cui trasuda fascino ai massimi termini, Per i neofiti, il modo più semplice e coinvolgenti per avvicinarsi a un terreno da calpestare con cura e maniacale attenzione. Mi hai fatto venir voglia di tornare ad ingaggiare modelle. Per realizzare servizi da destinare a Vogue… 😉 Fantastica
Hai chiuso il tuo commento strappandomi un sorriso, Michele! Spero davvero tu possa presto essere nuovamente stimolato ed ispirato a creare nuovi scatti che, sono certa, riempirebbero d’orgoglio chiunque avesse la fortuna di essere messa al servizio del tuo innato talento! Sono felice ti sia piaciuto l’articolo, tienilo d’occhio perchè non è finita qui e grazie sempre per il tuo supporto!
Finalmente un articolo per tutti!!!Grazie per questi preziosi regali, perle di chiarezza, oltre che di saggezza! Con molta, attenta e ormai in disuso professionalità, si leggono dettagliate e chiare definizioni ad ogni riferimento fatto. Che dire, non me ne vogliamo altri, ma ben tornato giornalismo che prende per mano il
lettore e l’ accompagna frase per frase per una comunicazione vera, argomentata che essenzialmente prevede la comprensione a prescindere, come solo le buone penne ormai rare, sanno fare. Complimenti Manuela e grazie ancora!
Che dire a te, caro Lorenzo! Un commento così ricco di entusiasmo e apprezzamento, non può che rendere giustizia al meticoloso e appassionato lavoro fatto, che ti ringrazio di cuore per aver accolto così bene e che ti invito a seguire anche quando, più in là, ne sarà pubblicato il seguito!
Più che un articolo è un vero e proprio viaggio nel tempo, con rievocazione di vecchi scatti e confronto con l’epoca attuale. Complimenti a Manuela che professionalmente sa passare dal ritratto alla fashion photography, e ancora alla fotografia di eventi.
Brava e grazie di questo viaggio nel tempo 🙏
Ciao Massimo e grazie per aver letto un articolo molto ricco, si! D’altronde, quando si parla di fotografia contestualizzandone i contenuti da un’epoca all’altra, è impossibile non occupasi del tanto che è stato scoperto, tramandato e cambiato in tutti questi decenni. Felice che ti sia piaciuto l’articolo e continua a seguirmi, che ne seguira’altro!